Locazione e Covid19

Argomento di attualità ai tempi del coronavirus è la sorte dei contratti di locazione, con particolare riferimento a quelli ad uso commerciale, alla luce del lockdown che ha di fatto imposto la chiusura della maggior parte dei locali.

Il quesito è semplice: “Il conduttore è tenuto a pagare il canone nel periodo emergenziale, stante la chiusura imposta dallo Stato ?”

Sul punto sono stati pubblicati diversi studi -ad opera prevalentemente delle associazioni di categoria di conduttori e proprietari- giungendo a conclusioni prevedibilmente opposte.

Per cercare di fare un po’ di chiarezza, partirei dai dati oggettivi, scevri cioè dall’appartenenza all’uno o all’altro schieramento.

Il Cura Italia ha previsto per gli immobili rientranti nella categoria catastale C/1 un credito d’imposta del 60% del canone di locazione relativo al mese di marzo 2000. L’Agenzia delle Entrate (circolare 8/E 03\04\2020) ha specificato che il credito d’imposta maturerà a seguito dell’avvenuto pagamento del canone. Le anticipazioni sul “decreto aprile” -che non ha ancora visto la luce- inducono a ritenere che la misura verrà prorogata anche per i mesi successivi.

La ratio della norma, a parere di chi scrive, appare evidente: lo Stato aiuta il conduttore rimborsandogli il 60% del canone a patto che il canone venga pagato; pertanto, il conduttore avrà un discreto sconto sul canone e il locatore percepirà regolarmente il provento. In linea con questa prospettazione, la citata circolare dell’Agenzia delle Entrate ha ulteriormente precisato che la norma ha la finalità di ristorare il soggetto dal costo sostenuto -costituito dal canone- sicché in coerenza con questa finalità il credito maturerà a seguito del pagamento del canone.

Tale conclusione, e cioè che il rapporto locatizio tra le parti prosegue regolarmente, appare conforme anche alla luce degli istituti giuridici invocati a sostegno dell’opposta tesi dalle associazioni dei conduttori, e cioè l’impossibilità sopravvenuta (artt. 1463-1464 c.c.) o l’eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.).

In tema di impossibilità sopravvenuta -totale o parziale- la norma si spiega considerando che nei contratti sinallagmatici ciascuna prestazione trova giustificazione nella prestazione della controparte: pertanto, se una di esse viene meno, viene meno anche la causa che giustifica la controprestazione. Nel caso di specie, appare giuridicamente insuperabile la circostanza che i limiti all’esercizio dell’attività imposti dal lockdown non hanno inciso sulla prestazione del locatore, che consiste nella messa a disposizione dell’immobile, che rimane idoneo all’uso convenuto.

L’eccessiva onerosità della prestazione, invece, conduce alla risoluzione del contratto e non alla sua conservazione, fatto salvo il consenso dell’altra parte (locatore); tuttavia, se ipotizziamo la risoluzione del contratto, il conduttore può alternativamente utilizzare lo strumento del recesso per gravi motivi (appunto il coronavirus), da ritenersi assolutamente legittimo nel caso che qui occupa, ma che però comporta -oltre alla risoluzione del contratto- il preavviso di sei mesi decorrenti dal recesso.

L’attuale quadro normativo, pertanto, appare chiaro: il conduttore dovrà continuare a pagare il canone, salvo accordi specifici con il locatore. È quindi lo Stato che interviene a sostegno delle parti, senza scaricare su costoro gli effetti deleteri della crisi (il conduttore paga con uno sconto, il locatore percepisce il canone e paga le imposte sul canone percepito).

Nessuna norma, infine, è intervenuta a riguardo dei contratti di locazione ad uso abitativo, relativamente ai quali le ragioni della pandemia non si ritiene possano avere rilievo giuridico sulla sorte del contratto, le cui obbligazioni rimangono immutate.

Avv. Marco Capello

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